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Intervista con Massimo Padovan

Abbiamo intervistato per voi l’emergente artista Massimo Giacomo Olmo Padovan, autore di alcune delle più eclatanti avanguardie dell’ultimo decennio. Lo abbiamo interrogato in merito ai suoi gusti, alle sue aspirazioni, al mondo che lo circonda.

– Signor Padovan, ci dica, come nasce la sua arte?

Le mie sculture, come le conoscete ora, nascono quasi casualmente. Stavo cercando la carcassa inerte del mio cane Alvin all’interno della discarica in cui mio padre lo aveva crudelmente abbandonato e mi ritrovai circondato da un caos metallico all’interno del quale tutto acquisiva finalmente un senso.

– Ritrovò il suo cane?

Non aveva più importanza. In quel momento sembrò che tutti i miei precedenti dipinti assumessero tre dimensioni, concretizzando la loro componente tattile, che da allora diventò per me essenziale.

– Cosa vede nel futuro delle sue opere?

Leghe, ossidi e vernici. Una mistura e una contaminazione di generi e materiali. Un essenziale che pullula di molteplicità. Un qualcosa che non possa essere nient’altro che se stesso, ma che abbia al contempo una sfera comunicativa senza eguali.

– Come giudica l’evoluzione dell’arte contemporanea?

Sta migliorando. Abbiamo avuto un periodo di stallo negli scorsi anni, ma finalmente anche la critica sta imparando a riconoscere le belle menti. Mi auguro che i futuri artisti non mi deludano.

– Proseguono bene le sue esposizioni in giro per la nostra penisola?

Benissimo! Una delle mie opere più care si troverà a Padova tra qualche giorno. Non potrei esserne più orgoglioso.

Incontro con Matteo Bertani

– Ho osservato le tue opere per la prima volta quando lavoravo per Deutsche Bank a Milano, era stata appena acquistata una serie di 4 acquerelli per la collezione d’arte. Mi hai spiegato che l’acquerello è stata la prima tecnica con cui ti sei confrontato. Cosa ti piace di questo mezzo espressivo?

C’è un aspetto di purezza nell’acquerello, acqua e colore, e ha una forza pazzesca nella sua delicatezza.

– Nella tua casa/studio troneggia alla testa del letto una grande stella di David, questo simbolo torna nei tuoi lavori. Il rimando immediato è al popolo ebraico, ma forse non ha nulla a che fare con questo…

La geometria è ricorrente nel mio lavoro, lo scudo di David come lo hai chiamato te, ha una forma che mi ha sempre incuriosito molto. Tramite incontri e letture un anno fa ho iniziato a rifletterci e mi sono appassionato a questa geometria che ha una valenza molto arcaica e solo in un secondo momento è entrato a far parte di alcune mie opere. Una leggenda ebraica dice che David si fosse costruito questo scudo che lo avrebbe protetto dai nemici, un’altra leggenda è collegata al sigillo di salomone. La stella a sei punte o esagramma in questo caso è stata anche trovata su antichi templi indiani e su amuleti, veniva usata per proteggere da febbre e malattie. Attualmente è legato anche a una protezione dalle frequenze hz che in questo momento storico sono svariate e ovunque, rappresentano una complessità che sto cercando di capire e sentire .Ecco perchè questo simbolo troneggia nel luogo dove dormo, in un sentimento magico è come se mi proteggiesse da un mondo (in)visibile sul quale sto riflettendo.

– Abbiamo parlato di viaggi, in particolare della tua esperienza negli Stati Uniti, mi ha colpito una frase che hai detto a questo proposito: “L’ America è per me più misitica dell’India”. Perchè?

Non ho proprio detto che l’America è più mistica dell’india, il mio primo lungo viaggio l’ho fatto in America. Sono cresciuto con questo mito e per me è stato un viaggio intenso, avevo molta voglia di vederla. Di solito questa parola (mistico) si riallaccia all’India ecco perchè ho definito l’America mistica. C’è qualcosa di personale e di introspettivo nei confronti di quel territorio che riguarda la mia esperienza e il mio percorso di vita. Di per sè l’America non ha quasi nulla di mistico, è rimasto un alone del passato legato alla razza rossa che è stata annientata e stravolta. Comunque è un grande paese molto variegato io ne ho visto solo una piccola parte e penso che sia un popolo che può ancora dare tanto. Dopo i disastri che ha provocato in una evoluzione umana, potrà solo fare il contrario e dare input ed energia per un cambiamento sociale-mondiale ed essere spunto per altri paesi.

– Mi sveli un tuo desiderio per il futuro?

Diventare sempre di più un bravo essere umano

Dove scorre l’arcobaleno

Avendone sentito parlare da diverso tempo come uno dei pochi luoghi per l’arte contemporanea in Umbria, prendo finalmente appuntamento. Anche solo una veloce occhiata al sito internet fa venire l’acquolina in bocca: una grafica pulita ed essenziale, che ritaglia il giardino e l’architettura in un bianco e nero minimale dietro al quale nasce un arcobaleno che scorre come un fiume via dalla pagina; ma soprattutto, la lista degli artisti: da Urs Fischer a Rudolf Stingel, da Fischli&Weiss a Murakami, il Giardino dei Lauri sembra voler portare i grandi nomi dell’arte contemporanea in una regione dove questa cultura non è ancora molto radicata.

La mia impressione è confermata dal collezionista, che subito dopo averci accolti personalmente per farci da guida, ci indica come uno dei motivi principali che lo hanno spinto ad aprire la sua collezione al pubblico sia proprio la volontà di condividere la cultura del contemporaneo con gli studenti umbri e toscani.

Le opere sono fin troppo numerose per uno spazio sicuramente non enorme, ma si riesce comunque a goderne senza che siano soffocate l’una dall’altra. La collezione comprende dipinti, sculture, installazioni e video che vanno dal lirico Banks Violette e il suo etereo cavallo di fumo al più ludico Martin Creed, che invita i visitatori in una stanza di palloncini bianchi sottraendogli Half the air in a given space; c’è anche la straniante dolcezza di Tim Noble e Sue Webster, che permettono al pubblico di trasformare una montagna di banconote da un dollaro in un tenero bacio-ritratto, semplicemente inserendo un gettone, e la stupenda Big Moth di David Altmejd (ve lo ricordate al Padiglione Canada della Biennale 2007, con il suo universo selvaggio e specchiante?), che attraverso metamorfosi e innesti mostra come la vita umana sia solo un minuscolo frammento all’interno di una realtà biologica in continua evoluzione. Non manca l’ironia di Piotr Uklanski, che si sostituisce a Dalì nel suo  celebre teschio di donne nude e a cui spetta l’ultima parola alla fine della visita, una gigantesca mano di tubi in metallo che ci saluta dall’alto della sua cava monumentalità.

Il Giardino dei Lauri ospita infatti anche alcune opere all’aperto, nel giardino vero e proprio, e non distante dalla mano scopriamo dove è andato a finire il fiume arcobaleno del sito: lo ha eretto qui Ugo Rondinone per lasciarci con una domanda: Where do we go from here?

Blu e il giornalismo

immagine-004L’ex caserma è pericolante e occupata abusivamente; nell’articolo di Savelli si fa riferimento al pericolo per la sicurezza e alle preoccupazioni di altri abitanti del quartiere (“i commercianti”) che hanno richiesto l’intervento dei vigili urbani per fermare “l’imbianchino”. Un altro elemento da tener presente è che l’opera di Blu è stata commissionata dal coordinamento cittadino “lotta per la casa”.

Quindi: o siamo di fronte all’ennesimo caso di incomprensione da parte delle grette istituzioni nei confronti dell’arte “radicale”; oppure all’ennesimo caso di prevaricazione dell’estetica.

 Ci sono due questioni: la prima è sul giornalismo culturale, la seconda sull’opportunità dell’opera di Blu.

Riguardo alla prima questione penso che sì, è vero che c’è un problema di giornalismo culturale, e non solo all’interno del gruppo Espresso/Feltrinelli. Ma mi associo alla constatazione di Raffaele Ventura del blog Eschaton che fa notare come questo problema sia dovuto anche al modo di reclutamento dei giornalisti e alle forme contrattuali cui sono vincolati.

Riguardo alla seconda questione dico: chi se ne frega se Blu mi ridipinge la facciata. Non è la facciata che mi dà una casa decorosa e mi fa vivere meglio. Il coordinamento poteva avere un po’ meno fantasia e chiedere aiuto a muratori, idraulici ed elettricisti, più che ad un artista. Sia ben chiaro che non ce l’ho con Blu che fa cose molto belle o con la street art in generale. Ce l’ho invece con quelli che vedono nell’arte la valorizzazione di un territorio e infine la panacea di tutti i mali della vita, questo sì.

Intervista all’artista Domenico Rogeo

Si tiene a Roma in questi giorni e fino al 28 marzo prossimo, presso gli spazi della Stazione Tiburtina, la mostra di arte contemporanea OSMOSIS, realizzata dagli studenti della terza edizione del LUISS Master of Art. Obiettivo dell’esposizione è fotografare attraverso l’arte un istante della realtà e in particolare il clima di incertezza generato dalla crisi economica.
La collocazione all’interno della stazione Tiburtina non è un caso, ma una scelta ben precisa. La stazione ricopre infatti il ruolo di una grande piazza, un crocevia di spostamenti, uno spazio pubblico d’incontro in cui trascorrere del tempo e godere di uno sguardo sull’arte.

Domenico Romeo, uno degli artisti che hanno preso parte all’evento, ha presentato per l’occasione la nuova opera “Selezione Innaturale”.

IMG_9033A (Large)Fotografia di Claudia Grasso

Parliamo di Osmosis. Cosa ti attrae di questo progetto e come hai reagito all’invito ad esporti su un tema tanto contemporaneo quanto delicato?
Sin da subito ho trovato interessante il luogo, non-luogo, in cui si sarebbe tenuta la collettiva, ovvero la Stazione Tiburtina. È insolito esporre in una stazione, in cui la maggior parte dei visitatori capita per caso. In quanto luogo di passaggio, la possiamo metaforicamente paragonare al momento che stiamo vivendo: una breve attesa prima di salire su un treno che ci porta lontano, un’ultima veloce tappa prima del cambiamento. Il tema mi ha dato modo di meditare su ciò che sta realmente accadendo all’umanità oggi, a quanto sia importante questo momento per noi, tanto simile ad altri periodi storici ma al contempo immensamente diverso e unico.

La mostra parla del clima di incertezza generato dalla crisi. Quanto questo influisce sulla vita di un giovane artista?
Un artista si esprime creando e fotografa una porzione di realtà traducendola nella sua lingua. A mio modestissimo parere la migliore arte è quella prodotta in momenti di grandi cambiamenti, momenti di incertezza, momenti di crisi economica. Penso alle avanguardie artistiche dei primi del ’900, al Futurismo che considero l’avanguardia più rivoluzionaria. Hanno prodotto un’arte diversa, nuova, unica e assolutamente figlia del proprio tempo, in mezzo a guerre mondiali e ribaltamenti di ogni genere. Quindi ritengo che l’incertezza del nostro tempo fornisce ai giovani artisti nuovi spunti di riflessione. In momenti di crisi è l’arte a farsi via di fuga dall’atroce realtà, i giovani, artisti e non, lo sanno bene e stanno già correndo veloce!

IMG_8942A (Large)Fotografia di Claudia Grasso

Il prof. Achille Bonito Oliva, responsabile scientifico del LUISS Master of Art, ha detto che “i giovani artisti sentono il bisogno di un dialogo e non di un solitario monologo. Vogliono privilegiare il pubblico in transito”. Sei d’accordo? E quanto è diverso esporre in una stazione piuttosto che in una galleria?
Ogni uomo ha bisogno di comunicare, di instaurare un dialogo. Così anche gli artisti. Persino io che ho deciso di comunicare la necessità di non essere “letto”, quindi di non comunicare. Personalmente non mi cambia molto esporre in galleria o in stazione, ogni lavoro ha una dose di concetti più o meno alti che mi riguardano e che voglio rendere pubblici. L’importante è non sottovalutare mai un lavoro che sia museale o nel bar dell’amico.

Parliamo dell’opera che hai esposto per Osmosis: “Selezione Innaturale”. Perchè questo titolo e cosa vuoi trasmettere con l’opera?
La selezione naturale teorizzata da Charles Darwin nel suo libro “L’origine della specie” introduce il concetto di lotta per l’esistenza in cui organismi che presentano caratteristiche vantaggiose in date condizioni ambientali sono destinati a sopravvivere a scapito di altri. In altre parole, è l’ambiente a selezionare le mutazioni secondo il criterio di vantaggiosità. La “Selezione Innaturale”, ciò che sta avvenendo oggi, è invece un processo generato dall’uomo che detiene il potere economico a scapito di chi questo potere lo subisce. La selezione non è imposta da un ambiente circostante ma dall’uomo.
Io ho voluto fotografare questo processo innaturale rappresentando un uccellino che si conquista la sua porzione di ricchezza quotidiana non sapendo di essere preda di un volatile enorme e senza volto. Invisibile ma spaventoso. Metafora della crisi informe alla quale non si riesce a dare un nome, né un volto.
A livello compositivo il punto focale dell’opera è l’oro, esattamente al centro geometrico del campo intorno al quale ruota tutto.
L’opera però ha anche un risvolto intimo e personale riferibile a ciascun individuo. Abbiamo tutti una crisi interiore da superare, una dose di ricchezza quotidiana da ingurgitare per soddisfare la nostra anima e un mostro senza volto da abbattere.

La tua arte è davvero molto particolare. Qualcuno la definisce “callifigurativa”. Puoi spiegarci meglio in cosa consiste?
Ho riscritto le lettere dell’alfabeto creando un mio modo di comunicare. Talvolta queste lettere escono dalle righe e compongono figure a completare il concetto che voglio esprimere. Da lì il termine callifigurativo. Il contenuto delle frasi che scrivo si rivolge a me. Sono appunti che conservo per il futuro, per quando tornerò a leggerli.

L’arte ai tempi della realtà aumentata

Arte Realtà Aumentata

“La realtà aumentata è la street art del 21 secolo” Tamiko Thiel.

Che faccia tendenza bisogna renderne atto, ma la realtà aumentata ha veramente un futuro nel campo dell’arte?

La risposta non è poi così difficile. Se si guarda con occhio critico al passato infatti si nota che si sono trasformate in innovazioni di successo quelle che offrivano una reale utilità al consumatore finale, pur mantenendo una certa intuitività di utilizzo.

La realtà aumentata presenta proprio queste caratteristiche.
Cosa può offrire dunque al mondo dell’arte?

Direi che al momento i generi di utilizzo della realtà aumentata nel settore artistico-culturale si possono sintetizzare in tre filoni: Creativo, Ricreativo ed Informativo.

Nel primo punto, creativo, mi rifaccio alla tradizione virtuale e ad alcuni artisti pionieri del settore come Amir Baradaran ed il suo FutARism Manifesto, il già citato Tamiko Thiel oSander Veenhof e Mark Skwared. Questo dovrebbe interessare maggiormente l’altra parte della barricata artistica, ovvero gli artisti stessi. La realtà aumentata promette di aprire un nuovo canale comunicativo, creando percorsi immaginari che travalicano il limite del reale sconfinando nel virtuale.

Il secondo punto, ovvero il filone ricreativo, è quello che mi lascia più perplessa. Riguarda la promozione tramite eventi a realtà aumentata puntando più sulle qualità sceniche che su quelle comunicative della nuova invenzione. Un filone legato al marketing più spregevole, quello che non offre un reale valore aggiuntivo al consumatore, ma che punta solo alla spettacolarizzazione. E proprio per questo destinato a sparire con un progressivo adattamento del pubblico alla nuova tecnologia.

L’utilizzo più interessante a mio parere è proprio quello informativo.
Penso a dei bambini in gita, che hanno la possibilità di immergersi nella storia come in un videogame, penso a degli studenti universitari, che possono interfacciarsi al meglio con l’oggetto del loro studio, senza nessun rischio per il patrimonio culturale.

Tutto questo ovviamente si può tradurre anche in un ricavo economico per le strutture che decidessero di avvalorare la loro struttura con apparecchiature di questo tipo. Alcune realtà, come il Getty Museum di Londra o il Museo Archeologico di San Severino Marche hanno già deciso, con successo, di investire in questo tipo di tecnologie.

Le possibilità per la realtà aumentata nel settore sono quindi molteplici e ad oggi esplorate solo in parte, ma penso ne sentiremo parlare sempre più spesso nei prossimi mesi.

Valigia dell’architetto

Al Padiglione dei Paesi Nordici di Sverre Fehn, in occasione della 13aBiennale d’Architettura di Venezia, c’è una specie di Boîte-en-valise. Questa valigia, piuttosto grande in effetti, non contiene la summa delle opere di Marcel Duchamp, ma neanche libri o calzini: è una valigia di consigli.

Il gruppo norvegese TYIN tegnestue Architects ha voluto partecipare così al progetto dei Paesi Nordici, Light Houses, che si inserisce nel tema della Biennale “Common ground” presentando le concezioni sull’architettura di trentadue giovani architetti, tutti nati dopo il 1962, anno di costruzione del padiglione, attraverso altrettanti modellini di case concettuali.

The TYIN Architects Toolbox, quindi, è una cassetta degli attrezzi che invece di offrire pinze, viti e tenaglie riporta dei suggerimenti per lavorare meglio, tutti accompagnati da piacevolissime illustrazioni.

Una casa metodologica, una condivisione di verità utili e un modo sicuramente interessante di esporre a una Biennale di architettura: concettuale e più pratico che mai.

Il bello artistico e il bello di natura

Avete letto della discussa performace di Julian Charrière e Julius von Bismark? In occasione della Biennale di Architettura, che si apre domani, Charrière ha catturato alcuni piccioni che svolazzano attorno a Piazza San Marco; dopo averli catturati li ha colorati; dopo averli colorati li ha liberati; Bismark li fotografa.

La performance si intitola Some pigeons are more equal than others

Viene da chiedersi: che senso ha tutto questo? Nel suo sito, Charrière non lo spiega.

Ci proviamo noi. Si può affermare: colorare i piccioni intende mettere in risalto questo piccolo popolo delle nostre città – notoriamente di Venezia, dove può darsi abbiano persino superato in numero gli abitanti residenti. Il colore, che comunque non dovrebbe essere permanente né tantomeno nocivo, “abbellisce”  e “decora” la città, “diverte” i passanti.

Contro questa spiegazione tuttavia si può sostenere il primato della natura sull’arte (vedi articolo dei nostri colleghi di artsblog). Sostenere questo primato equivale a rigettare il lavoro di Charrière e Bismark. Infatti: non è moralmente accettabile sfruttare esseri viventi intelligenti per produrre arte; quando lo si fa ciò che si fa non è arte ma qualcosa di non etico, qualunque sia l’intenzione dell’artista (provocare, sfidare i tabù, rivendicare rispetto per i piccioni, rendere giustizia in controluce a questa specie). Secondo questa tesi l’intenzione dell’artista è ininfluente, tanto, si sa, non corrisponde all’intenzione dell’animale.

Uno potrebbe controbattere dicendo: beh, tanto neanche mangiare carne corrisponde all’intenzione dell’animale, eppure la si mangia lo stesso. L’animalista, che probabilmente non mangerà carne, risponde: ma mangiare carne per mantenersi in vita è ben diverso che deturpare, benché solo temporaneamente, degli animali per fini artistici.

Il sostenitore della libertà dell’arte infine fa notare che quest’ultima affermazione si basa su una differenza di intenzioni. Infatti chi dice che è sbagliato prendere dei piccioni e servirsene per fare opere d’arte, poiché essi sono animali innocenti che non hanno per niente voglia di diventare gialli o verdi, sta in realtà facendo un processo alle intenzioni (del piccione).

Io userei un argomento molto diverso per dire che l’opera di Charrière e Bismark è brutta, e chissene della morale. Io direi: è brutto colorare i piccioni, perché i piccioni sono belli così come sono. Se qualcuno avesse voglia di metterne in rilievo la presenza silenziosa, si provi ad adescarne uno con del mais tostato, ne si notino le belle sfumature cerulee del piumaggio, la silhouette, l’incedere, lo sguardo che pare di chi è lì per caso.

I piccioni sono belli così come sono, non c’è bisogno di colorarli e anzi, colorarli ne rovina l’aspetto. Tutto qui.

Ah, dimenticavo: forse Charrière e Bismarck non sanno che Mike Tyson alleva piccioni da quando è ragazzino, ne è letteralmente innamorato e non credo che li apprezzi molto in blu, in giallo o in verde. Al loro posto starei attento a quali piccioni sto colorando.

Cambio di stagione: l’inverno a Milano è americano

L’arte e la cultura degli States sbarcano nel capoluogo lombardo con mostre, concerti, spettacoli teatrali e di ballo, film e dibattiti, da metà settembre fino a febbraio 2014.
Da martedì 24 settembre, la Milano a stelle e strisce accoglie il meglio dell’avanguardia di metà Novecento con la mostra d’arte contemporanea intitolata “Pollok e gli Irascibili. La scuola di New York”. 40 capolavori, provenienti dal Whitney Museum di New York, raccontano la storia di un movimento rivoluzionario e sperimentale, nato in un momento di grande fermento e destinato a cambiare radicalmente il mondo dell’arte contemporanea.
Artisti come Willem de KooningMark RothkoArshile Gorky e lo stesso Pollok resero la Grande Mela, dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta, un laboratorio attivo di idee e di creatività.
L’Espressionismo astratto e l’Action Painting, sviluppati dalla scuola di New York, stravolgono i canoni della pittura in cui si uniscono alle tecniche artistiche anche quelle della scrittura e della gestualità.
Basti pensare alla tecnica del dripping di Jackson Pollok, con cui realizzò Number 27 nel 1950, opera eccezionalmente prestata per l’occasione dal Whitney. E che dire della manipolazione del colore, con gesti vigorosi e liberi, dell’esistenzialismo esasperato di Willem de Kooning? E non vanno dimenticati gli sperimentalismi di Mark Rothko, che apriranno la strada alle ricerche concettuali e minimaliste degli anni successivi.
Vennero definiti giovani e irascibili  perché reagirono bruscamente scrivendo una lettera di protesta al Metropolitan di New York, quando nel 1950 rifiutò di invitare gli esponenti dell’espressionismo astratto in una mostra dedicata all’arte americana. Questa reazione segnò uno dei momenti più alti della storia dell’arte americana.
La mostra è a cura di Carter Foster con la collaborazione di Luca Beatrice, è promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano ed è prodotta ed organizzata da Arthemisia Group e 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE, in collaborazione con il Whitney Museum di New York.
 
Ma Milano ci stupisce anche con altro. Quando l’arte incontra la scienza anzi, la “neuroscienza” lo spettacolo è assicurato. Si chiama “Brain il cervello istruzioni per l’uso”, la mostra che sarà inaugurata il prossimo 18 ottobre 2013 nel più grande museo di storia naturale d’Italia e tra i più importanti d’Europa, il Museo Civico di Storia Naturale di Milano. L’evento è stato organizzato con l’American Museum of Natural History di New York su un tema affascinante che riguarda la funzionalità di uno degli organi più strabilianti e complessi del corpo umano: il nostro cervello. 
La mostra sarà un divertente viaggio alla scoperta di tutti i meccanismi che regolano le nostre emozioni, sogni e percezioni, con allestimenti coinvolgenti che sorprenderanno tutti i visitatori i quali potranno toccare con mano le molte istallazioni presenti nell’evento. 
Sarà divisa in sei sezioni: il cervello Sensibile, il cervello Emotivo, il cervello Pensante, il cervello Mutevole, il cervello del Futuro, il cervello e la Nutrizione. Il tutto corredato da attività affini come exhibit, installazioni, giochi e filmati. All’interno della mostra sarà organizzato anche un mini festival di 3 o 4 giorni dal titolo Happy Brain che vedrà la partecipazione di illustri nomi di neuro scienziati che prenderanno parte a workshop, eventi, convegni, lectio magistralis e performances.
L’evento è curato da Rob De Salle, condirettore dei Molecular Systematics Laboratories e curatore della Divisione di Zoologia invertebrati dell’ AMNH, Joy Hirsch, direttore del Program for Imaging & Cognitive Sciences e professore presso la Columbia University e Margaret Zellnet, neuro scienziata associata presso la Rockfeller University. I collaboratori italiani invece sono Giorgio Racagni, professore ordinario e direttore del Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell’Università di Milano e del Centro Studio e Ricerca di Neurofarmacologia e Monica Di Luca, professoressa associata di Farmacologia, sempre presso l’Università di Milano.
 
Nell’Autunno Americano di Milano non poteva mancare il re della Pop Art, Andy Warhol. Un’esposizione monografica dedicata alla collezione di Peter Brant, benefattore e fondatore nel 1969, insieme a Warhol, di “Interview”, il noto magazine d’arte, costume e spettacolo. 
Dal 24 ottobre 2013 fino al 2 marzo 2014, la mostra, intitolata “Warhol dalla collezione di Peter Brant”, sarà ospitata presso il Palazzo Reale di Piazza Duomo.
 
Così il simbolo artistico del boom economico degli anni ’60 torna in Italia con le opere provenienti dalla Brant Foundation Art Study Center, il centro studi e ricerche messo su dal già citato Brant, per i lavori di Warhol e altri artisti, di cui era amico e collezionista.
Per appassionati e cultori, un evento da non perdere. 

Land of Prayer Alias di Giancarlo D’Alonzo

“Land of Prayer Alias”, inaugurata lo scorso settembre nello Studio d’Arte Contemporanea Pino Casagrande, è una mostra che fa parte di un progetto articolato in diverse fasi di Gianfranco D’Alonzo.
Si tratta infatti, del secondo step di un lavoro che ha visto la sua origine sul web nel 2011, dove D’Alonzo aveva dedicato uno spazio alla sua arte e alla comunicazione. Il sito stesso ha il nome di Land of Prayer e vuole essere un punto di incontro per tante persone, una terra di conforto a seguito di un lungo viaggio, su cui riversare i proprio pensieri e stati d’animo.
Da questo lavoro sul web sono venuti a crearsi rapporti, scambi e collaborazioni che hanno poi permesso un’evoluzione del progetto stesso. La mostra è quindi la seconda parte di questo lavoro, in cui il prodotto della rete viene trasposto nello spazio fisico della galleria Casagrande.
L’artista ricrea qui un ambiente unico che mette in relazione medium differenti: musica, video, pittura e installazione ambientale entrano in gioco creando un dialogo che da infine origine ad unicum compatto e profondamente suggestivo. Entrando nella sala si ha come l’impressione di penetrare in un luogo recondito e intimo che ci accoglie nel suo spazio innescando pensieri e sensazioni in continuo movimento, è qui che lo spettatore diviene parte stessa dell’opera e, come sul web, partecipa alla sua stessa realizzazione.
Nello studio della galleria due lavori pittorici si contrappongono l’uno all’altro, Con Titolo è una grande tela da cui spessi e corposi segni neri si diramano dal centro verso le estremità, si tratta di un’opera che racchiude un po’ la ricerca degli ultimi anni di D’Alonzo; la sperimentazione del segno, la matericità dello stesso e l’impatto colorico sono tutti elementi distintivi dei suoi ultimi lavori.
Word invece è un lavoro che si staglia dai precedenti sia per la tecnica che per la resa ultimale, è un lavoro che possiamo definire di raccordo, infatti racchiude in esso tutte le parole che hanno spiccato nei dialoghi web. La superficie è graffiata, incisa, vissuta e le parole creano quasi un vortice che converge nel centro del lavoro dove una spaccatura del piano determina la centralità del lavoro stesso.
La terza parte del progetto di D’Alonzo prevede la pubblicazione di un testo entro la fine del prossimo anno che raccoglierà esperienze, testimonianze e scambi raccolti durante la realizzazione di questo lavoro.